Non ci sono più le parole. Quelle vere. Quelle che si bagnano nel sangue della verità. Quelle che non si pronunciano nei salotti televisivi, né nei corridoi parlamentari, ma si urlano nelle notti sorde, quando un uomo viene trascinato via da una stanza, senza sapere dove andrà, né perché.
Eppure le chiamano “procedure”. Le chiamano “modifiche di funzione”, “decreti legge”. Le maschere del Potere — questo potere che non ha più volto ma solo bocche affamate — si susseguono in un rito osceno che assomiglia più al sadismo amministrativo che a una politica.
Abbiamo costruito dei centri. Li abbiamo costruiti con il cemento del nostro cinismo e li abbiamo lasciati vuoti, deserti, come templi in rovina, mentre fuori la storia bussava alle porte con le mani di un somalo, con gli occhi stanchi di un tunisino, con la voce tremante di una donna eritrea. Non erano ancora abbastanza “utili”, quei centri. Non servivano all’annuncio. Non servivano alla propaganda. E allora — ecco la soluzione — li riempiamo. Come si riempie un sacco, una cisterna, un silos. Ma con esseri umani.
Ora che il grande teatro dell’Europa è distratto dai dazi americani e dalla febbre del riarmo, l’Italia — l’Italia che si professa madre, che si dice cristiana, che ama ricordare Dante — prepara il suo nuovo peccato: la deportazione amministrativa. Non più vagoni piombati, non più stazioni di smistamento, no. Ora le deportazioni partono da porti italiani, viaggiano su navi della Marina, e approdano in centri extraterritoriali mascherati da giustizia.
Nel giro di dieci giorni dal trasferimento in Albania dei primi 40 migranti, è già tutto un andirivieni. In tre sono tornati indietro: due perché inadatti al regime di trattenimento, uno — un cittadino bengalese, venditore di rose in Italia dal 2009 — rimpatriato, si dice, su base volontaria. Un viaggio inutile, umiliante, dispendioso. Una parabola che si sarebbe potuta concludere in Italia, senza costi aggiuntivi, senza teatri dell’orrore oltre l’Adriatico.
Ci dicono che tutto è sotto controllo. Ma nessuno sa chi parte, né quanti, né da dove. Non ci sono nomi, né volti. Solo numeri da spostare, come container. Non c’è un diritto, non c’è un appello. Solo trattenuti. Trattenuti da chi? Perché? Per quanto?
Chi non ha paura di guardare negli occhi la miseria, sa riconoscere il puzzo della menzogna. E questa è una menzogna che puzza di propaganda, che gronda l’urgenza non della giustizia, ma del consenso. Dobbiamo far vedere che “facciamo qualcosa”. E per farlo, usiamo le persone. Come carne. Come cifra da far scorrere sotto ai titoli dei giornali.
E se qualcuno osa chiedere protezione internazionale in quei centri, come accaduto l’11 aprile a un migrante trasferito a Gjader, la giustizia interviene. La Corte d’Appello di Roma ha stabilito che il trattenimento è illegittimo. Che quel migrante va riportato in Italia. Che il Protocollo con l’Albania non può sostituire i principi costituzionali. Che il diritto d’asilo non si sospende. Nemmeno in mare.
Dopo la Libia, Il centro di Gjadër, in Albania, sarà il nostro nuovo confine morale. Là getteremo chi non vogliamo più guardare. Là chiuderemo, fuori dalla vista, la nostra vergogna. Perché sì, è vergogna, non sicurezza. È repressione, non ordine. È una nuova forma di esilio, quella che prepariamo per loro e, insieme, per noi stessi. Perché chi rinchiude è sempre più prigioniero di chi è rinchiuso.
Le storie che arrivano dai Cpr italiani sono già storie di violenza senza nome. Psicofarmaci, autolesionismo, isolamento. Ora aggiungiamo il mare, il buio, la lontananza. L’invisibilità. In questo siamo diventati maestri: rendere invisibili i problemi. I corpi. Le voci.
L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) ha definito il decreto legge 37/2025 “una forzatura giuridica e costituzionale”. L’Albania è diventata una zona grigia, uno spazio extraterritoriale dove sospendere lo Stato di diritto. ActionAid e il Tavolo Asilo parlano di una negazione del diritto alla difesa, della dignità umana, della storia individuale di ciascuno. È il paradigma securitario che inghiotte tutto. Anche la pietà.
A dicembre, una grande mobilitazione del Network Against Migrant Detention ha marciato fino a Gjadër e Shengjin, per dire no al modello di esternalizzazione delle frontiere. Il 10 aprile, nel primo anniversario del Patto Europeo sulle Migrazioni, lo slogan era uno solo: “This Pact Kills”. Da Milano a Trento, da Bologna a Roma, le voci si sono unite contro un futuro distopico che rischia di diventare normalità.
Un rischio, paradossalmente, mitigato solo dall’assurdità del meccanismo stesso: lo ha dichiarato lo stesso ministro Piantedosi, con candore quasi grottesco. Tutti i migranti portati in Albania dovranno comunque tornare in Italia per l’effettivo rimpatrio. Un giro dell’assurdo. Una messinscena dispendiosa. Una crudeltà senza efficacia.
E infine, il denaro. Un miliardo di euro. Spesi non per accogliere, non per integrare, non per capire. Ma per deportare. Per affondare un’umanità indesiderata lontano dal nostro sguardo. Come se bastasse il mare a lavarci la coscienza.
Ma il mare non lava. Il mare restituisce.
Restituirà i nostri decreti, le nostre omissioni, la nostra ipocrisia.
E quando i nostri figli ci chiederanno «Dov’eravate?», cosa risponderemo?
Che abbiamo guardato.
Che sapevamo.
Che abbiamo taciuto.