Cecilia Sala parla per la prima volta dell’arresto a Teheran

Cecilia Sala

Un applauso lunghissimo accoglie Cecilia Sala negli studi di “Che tempo che fa”, il programma condotto da Fabio Fazio su NOVE. È la prima volta che la giornalista parla pubblicamente in televisione della sua detenzione nel carcere di Teheran, in Iran.

Si è trattato di un’intervista di 27 minuti che ha ripercorso i momenti più strazianti fatti di paure e speranza, di interminabili e quotidiani interrogatori ma anche di ricordo per tutte quelle persone ancora detenute in carcere che non hanno la sua stessa fortuna . “La mia, spiega la reporter, è stata l’operazione più rapida che non si vedeva dagli anni ‘80”. 

La giornalista detenuta per 21 giorni ad Evin, ha ricordato il giorno in cui è stata prelevata dall’hotel e portata in carcere “stavo lavorando nella mia stanza dell’hotel, hanno bussato e da quel momento non ho potuto toccare il mio telefono né fare nulla. Mi hanno messo in auto, incappucciata e con la testa abbassata verso il sedile. Ho capito che mi stavano portando in carcere dal rumore del traffico e dalla strada che stavamo facendo”. 

Il lungo calvario di detenzione di Cecilia Sala, ha compreso interminabili interrogatori fatti sempre dalla stessa persona: “parlava un inglese perfetto, capivo che conosceva molto bene l’Italia. L’interrogatorio funziona in momenti in cui ti fanno rilassare, ti danno anche un premio che può essere il dattero o una sigaretta e dei momenti in cui cercano di spezzarti dandoti una cattiva notizia. C’è stato un momento in cui mi hanno chiesto se preferivo l’impasto della pizza romana o napoletana, questa è una cosa che solo a chi è stato in Italia più volte può venire in mente. – Afferma Cecilia Sala: “Era un modo per dirti conosciamo bene il tuo paese. Penso che loro volessero dimostrare che non ero una giornalista”. 

Descrive la sua cella “due metri per tre” e racconta che l’isolamento è la cosa più terribile “rumori strazianti, pianti e tentativi di farsi male” provenienti dalle altre celle. Le avevano tolto gli occhiali perché considerati un’arma e continua: “Quindi ho passato il tempo a contarmi le dita, a leggere ingredienti sulla busta del pane. Per andare avanti ho pensato alle cose belle della mia vita e mi aggrappavo al pensiero che prima o poi le avrei riavute“.

Tutte le chiamate che effettuava ai familiari erano controllate e spiega: “Le telefonate con Daniele sono state le più lunghe, perché vivendo insieme avevamo un linguaggio in codice, per cui riuscivo a passare delle informazioni nonostante la regola che non potevo passare le informazioni.” Ricordando ancora gli interrogatori, spiega: “Ero sempre incappucciata, con la faccia al muro, temevo per i miei nervi. Il giorno prima del rilascio mi hanno fatto domande per 10 ore. Sono crollata, mi hanno dato una pasticca”. 

La mattina dell’8 gennaio, racconta Cecilia: “Pensavo che le persone che mi erano venute a prendere fossero i pasdaran e non l’intelligence iraniana”. Credevo mi stessero portando in una delle loro basi militari, quando poi all’aeroporto militare mi hanno sbendata e ho visto una faccia italianissima con un abito grigio ho fatto il sorriso più grande della mia vita”. 

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